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Immunoterapia: la risposta del tumore potrebbe dipendere dai batteri presenti nell’intestino
Lo rileva uno studio dell’Anderson Cancer Center (Texas). Si tratta di una ricerca preliminare che suggerisce una rivoluzione prossima ventura in questa nuova branca della terapia oncologica. L’ipotesi è che modulando la composizione del microbiota intestinale si possa potenziare la risposta all’immunoterapia. Trapianto fecale, antibiotici, pre e probiotici potrebbero dunque presto arrivare a dare man forte agli inibitori dei checkpoint immunitari
22 FEB - I batteri presenti nell’intestino potrebbero influenzare anche la risposta all’immunoterapia, l’ultima frontiera della terapia oncologia. A rivelarlo è uno studio condotto su pazienti affetti da melanoma in fase avanzata e in trattamento con inibitori del checkpoint immunitario PD-1. La ricerca ha appunto dimostrato che la risposta alla terapia si correla con la presenza di un determinato microbiota intestinale e con la presenza di specie batteriche particolari.
Lo studio è appena stato presentato a Orlando nell’ambito dell’ASCO-SITC Clinical Immuno-Oncology Symposium 2017.
 
Gli autori di questa ricerca hanno raccolto campioni di microbiota orale e intestinale (dalle feci) da 233 pazienti affetti da melanoma in fase avanzata che stavano per iniziare un trattamento; 93 di loro sono stati trattati con anti-PD-1. La composizione del microbiota è stata valutata con una tecnica di biologia molecolare (sequenziamento 165 rRNA), in grado di individuare i diversi batteri in base alle loro ‘firme’ molecolari. E’ stata inoltre valutata la composizione e la numerosità delle diverse cellule immunitarie all’interno di campioni tumorali dei pazienti.
 
Lo studio ha così permesso di evidenziare la presenza di differenze significative a carico del microbiota intestinale dei pazienti che avevano mostrato una risposta alla terapia con inibitori di PD-1, rispetto a quello dei non responder. In particolare, i pazienti che hanno mostrato una buona risposta al trattamento con inibitori di PD-1, presentavano una maggior presenza di batteri Clostridiales (in particolare quelli della famiglia delle Ruminococcaceae). I non responder dal canto loro mostravano invece una maggior presenza di batteri Bacteroidales rispetto ai responder. Risultati interessanti dunque, ottenuti però su un piccolo campione, di appena 43 pazienti (30 responder e 13 non responder).
 
Per quanto riguarda l’infiltrato immunitario dei campioni tumorali, anche qui sono emerse delle differenze. I responder in particolare presentavanouna maggior concentrazione di cellule CD8+, i linfociti T anti-tumore, rispetto ai pazienti che non avevano mostrato una risposta alla terapia. Dall’analisi dei dati è emersa inoltre un’associazione tra la concentrazione di CD8+ nel microambiente tumorale e una maggior presenza di batteri della famiglia delle Ruminococcaceae nel microbiota intestinale.
 
Nessuna associazione particolare è invece emersa dall’analisi del microbiota orale, fatto  tuttavia non ne esclude un possibile ruolo nell’influenzare al risposta all’immunoterapia nel caso di altri tumori, come quelli di testa collo e polmone che merita ulteriori indagini.
 
“Si tratta di un risultato preliminare – ammette Jennifer A. Wargo, professore associato di medicina genomica e di oncologia chirurgica dell’Anderson Cancer Center dell’Università del Texas – che, se validato in coorti più ampie e in altri tipi di tumore, potrebbe avere implicazioni significative per la prognosi e il trattamento del cancro. Nel frattempo abbiamo bisogno di lavorare per comprendere come il microbioma possa influenzare le risposte immunitarie e come poterlo eventualmente modificare per fare in modo che un numero maggiore di pazienti possa rispondere all’immunoterapia”.
 
Nei progetti futuridi questo gruppo di ricerca c’è il cercare di scoprire come modificare la composizione del microbiota intestinale per aumentare le chance di risposta all’immunoterapia. Le tecniche a disposizione sono essenzialmente il trapianto fecale, la somministrazione di antibiotici per distruggere selettivamente alcuni tipi di batteri o l’impiego di pre e probiotici per potenziare la presenza di alcuni batteri nell’intestino.
Si tenterà inoltre di scoprire attraverso quali meccanismi il microbiota intestinale riesca a potenziare le risposte immunitarie anti-tumorali e sistemiche.
 
Infine arriveranno gli studi di intervento, ovvero i trial clinici per valutare l’ipotesi che attraverso la modulazione del microbiota intestinale si possa migliorare la risposta agli inibitori dei checkpoint immunitari. E per il primo trial di questo genere, in collaborazione con  il Parker Institute for Cancer Immunotherapynon bisognerà attendere a lungo: l’inizio è infatti previsto per la fine di quest’anno.
 
Il microbiotaè sempre più al centro di ricerche di ogni genere e in ogni campo della medicina. E’ infatti ormai evidente che, vista anche per la sua schiacciante superiorità numerica (i batteri battono in numerosità le cellule dell’organismo con un rapporto di 10 a 1), il microbiota di certo influenzi in qualche modo lo stato di salute o di malattia dell’organismo. Nel solo intestino si trovano circa 100 trilioni di batteri e oltre un migliaio di specie diverse. Ogni parte del corpo inoltre presenta un microbiota con una composizione diversa e specifica. La dieta e l’esposizione a determinati batteri nelle prime fasi della vita sembrano avere un ruolo importante nell’influenzare la composizione del microbiota.
 
Una serie di studi fatti su modello animale (topo) hanno da tempo evidenziato un’importante influenza del microbiota sulle funzioni anti-tumorali del sistema immunitario. Alcuni studi animali hanno dimostrato che modificando la composizione del microbiota intestinale è possibile aumentare l’efficacia degli inibitori del checkpoint. E questo appena presentato a Orlando è uno dei primi studi sull’uomo ad aver esplorato il ruolo del microbiota sulla risposta all’immunoterapia.
 
“L’immunoterapia sta rapidamente migliorando la vita di una serie di pazienti oncologici – afferma Lynn Schuchter dell’ASCO - purtroppo però non funziona su tutti e non sappiamo ancora perché. Questi risultati aprono la porta a nuovi approcci per potenziare la risposta dei pazienti agli inibitori del PD-1, magari attraverso la ‘correzione’ della composizione dei batteri intestinali”.
 
Lo studio presentato all’ASCO-SITC è stato finanziato dal programma Moon Shot  presso l’Anderson Cancer Center, dal Melanoma Research Alliance e dal Parker Institute for Cancer Immunotherapy.
 
Maria Rita Montebelli
22 febbraio 2017
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