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Screening mammografici. Quanto servono? Diagnosi aumentano ma riduzione malattia è più merito delle cure che non della diagnostica precoce. E poi ci sono i costi delle sovradiagnosi
Mega studio Usa evidenzia che può contribuire a salvare la vita delle donne affette da tumore della mammella, consentendo di diagnosticarlo precocemente. Ma c’è un effetto collaterale: l’enorme aumento delle ‘sovradiagnosi’, cioè dell’individuazione di noduli mammari che non avrebbero mai dato problemi clinici e che porta a fare cure non dovute. E nel guadagno complessivo di sopravvivenza la parte del leone non spetta certo alla mammografia, ma al miglioramento delle cure. Insomma un bilancio non del tutto convincente. Il lavoro è sul New England Journal of Medicine
15 OTT - Lo screening mammografico ha lo scopo di individuare tumori maligni di piccole dimensioni. Ciò significa che un screening efficace dovrebbe portare all’individuazione di un gran numero di piccoli tumori, determinando così nel tempo una riduzione delle prime diagnosi di tumori di grandi dimensioni.
 
Per andare a verificare la correttezza di questo assunto, un gruppo di ricercatori di università americane e della Divisione di Prevenzione del Cancro, del National Cancer Institute di Bethesda, attingendo ai dati del programma SEER (Surveillance, Epidemiology, and End Results) del periodo 1975-2012, sono andati a calcolare la distribuzione delle dimensioni dei tumori e l’incidenza del tumore della mammella specifica per dimensioni, tra le donne dai 40 anni in su. E’ stata quindi calcolata la mortalità specifica per dimensione del tumore in due diversi periodi: quello precedente all’implementazione dello screening mammografico (1975-1979) e nel periodo più recente (2000-2002), per il quale fossero disponibili 10 anni di follow up.
 
Come prevedibile, dopo l’avvento dello screening mammografico, la percentuale di diagnosi di tumori invasivi di piccole dimensioni (< 2 cm o in situ) è quasi raddoppiata, passando dal 36 al 68% (in termini assoluti un aumento di 162 casi diagnosticati ogni 100.000 donne), mentre quella dei tumori di grandi dimensioni alla diagnosi (tumori invasivi ≥2 cm) si è dimezzata, passando dal 64 al 32% (in termini assoluti una riduzione di 30 casi/100.000 donne). La parte del leone in questo trend a direzioni opposte, in termini assoluti,  l’ha fatta tuttavia l’aumento delle diagnosi di tumori di piccole dimensioni. Ma assumendo che il carico di malattia sia rimasto stabile, solo 30 dei 162 piccoli tumori /100.000 donne diagnosticati in più sarebbero destinati ad andare incontro ad un aumento di dimensioni; il che significa insomma che i restanti 132 piccoli tumori /100.000 donne rappresentano una ‘sovradiagnosi’, cioè dei noduli, rivelati allo screening, che non avrebbero tuttavia mai portato a sintomi clinici.
 
Lo screening mammografico mantiene tuttavia la sua validità nel ridurre la mortalità da tumore della mammella, come dimostra la minor incidenza di tumori di grandi dimensioni alla diagnosi. Andando però ad analizzare il tasso di mortalità correlato alle dimensioni dei tumori, si può desumere che i progressi della terapia siano responsabili dei due terzi almeno della riduzione di mortalità registrata per questo tumore. In altre parole, anche dopo l’introduzione dello screening mammografico, il contributo maggiore per la riduzione di mortalità è quello dovuto al miglioramento della terapia sistemica.
 
“Storicamente – scrivono gli autori – le decisioni in merito alla prognosi e al trattamento dei tumori sono stati guidati dal dato anatomico, ovvero dalle dimensioni del tumore e dall’estensione della patologia. Tuttavia è sempre più evidente che le caratteristiche biologiche del tumore sono più importanti ai fini della prognosi del tumore, rispetto alle sue dimensioni”. E gli autori riflettono anche sul fatto che mentre i clinici sono di giorno in giorno sempre più focalizzati sulla biologia molecolare del tumore, che secondo alcuni potrebbe andare presto a soppiantare anche la necessità di determinare lo status linfonodale della neoplasia,  lo screening è rimasto ancora ben ancorato al dato anatomico. Al punto che anche la ‘qualità’ della mammografia viene giudicata sulla base del tasso di individuazione dei tumori ‘minimali’ (carcinomi in situ o tumori invasivi di dimensioni subcentrimetriche). Ma il vero impatto sulla mortalità è dato dalla riduzione dei tumori di grandi dimensioni alla diagnosi, che a sua volta può ridurre l’incidenza di tumori in fase avanzata alla diagnosi. E di certo, lo stadio del tumore è un parametro prognostico molto più importante sulla mortalità rispetto alle sue dimensioni.
 
Insomma secondo gli autori dello studio, l'introduzione dello screening mammografico ha prodotto una serie di effetti. La lieve riduzione di incidenza dei tumori di dimensioni superiori ≥2 cm alla diagnosi conferma che lo screening ha la possibilità di anticipare l’individuazione di tumori destinati ad aumentare di dimensioni. Ma sull’altro piatto della bilancia c’è l’aumento, decisamente più importante , del numero dell’incidenza dei piccoli tumori (< 2 cm) diagnosticati che sta a testimoniare un fenomeno di sovradiagnosi, che non è certo un fenomeno desiderato, né innocente, portando al trattamento centinaio di donne che non l’avrebbero meritato. E che dai dati di questo studio assume delle dimensioni superiori a quanto finora ritenuto.
 
Maria Rita Montebelli
15 ottobre 2016
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