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Sclerosi multipla. Colpa di un gene se l’interferone non funziona. Scoperta apre a nuovi trattamenti 
Uno studio del San Raffaele di Milano e del Brigham and Women’s Hospital di Boston ha individuato una variante genetica in grado di spiegare la scarsa risposta della malattia alla terapia con beta-interferon. La scoperta consente una miglior conoscenza della patogenesi della malattia e apre la strada a nuove possibilità terapeutiche
17 MAG - Una certa percentuale di persone affette da sclerosi multipla (SM), presenta una malattia in fase attiva, nonostante il trattamento. L’individuazione precoce del farmaco più efficace per il singolo paziente rappresenta un fattore critico per gli esiti a lungo termine della malattia e per realizzare una medicina personalizzata.
 
Da queste premesse muove uno studio italo-americano, con l’intento di individuare dei biomarcatori in grado di gettare luce sulla fisiopatologia dell’attività di malattia, con possibili ricadute sul versante clinico della cura dei pazienti.
Un gruppo di ricercatori del San Raffaele di Milano, in collaborazione con il Brigham and Women’s Hospital di Boston sono così riusciti ad individuare una variante genetica associata alla risposta all’interferon beta, una terapia utilizzata nel trattamento di questa condizione.
 
Lo studio, pubblicato online su Annals of Neurology, è coordinato sul versante italiano da Filippo Martinelli Boneschi e Federica Esposito del Laboratorio di Genetica delle Malattie Neurologiche Complesse dell'Istituto di Neurologia Sperimentale (INSPE) dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, mentre il contributo stelle e strisce reca la firma di Philip L. De Jager e Wassim Elyaman del Brigham and Women’s
Hospital.
 
Lo studio ha arruolato circa mille pazienti italiani, francesi e americani, analizzando la loro risposta all’interferon beta. In questo modo è stato possibile osservare che i soggetti portatori di una particolare variante del gene SLC9A9 (rs9828519), implicata nella regolazione del pH intracellulare (è uno scambiatore Na+-H+ presente negli endosomi), mostravano una ridotta risposta a questo farmaco.
 
Secondo i ricercatori, questo gene può interferire nell’attivazione delle cellule dell’immunità, implicate in varie patologie, tra le quali appunto la sclerosi multipla. In particolare, questa variante genica sembra influenzare la differenziazione delle cellule T verso un aspetto proinfiammatorio.
 
“Saranno necessari ulteriori studi – sostiene il dottor Martinelli Boneschi - per confermare i risultati ottenuti in altri gruppi di pazienti, in particolare in quelli trattati con altri farmaci specifici per la SM, allo scopo di valutare se l’effetto della variante genetica sia limitato all’interferone beta o sia rilevante anche per altri trattamenti specifici. Lo studio che abbiamo portato avanti è un ottimo esempio di
ricerca traslazionale, che unisce le competenze dei ricercatori e l’esperienza clinica dei neurologi,
obiettivo principale degli scienziati dell’IRCCS Ospedale San Raffaele”.
 
“Questa scoperta è interessante – afferma la dottoressa Esposito - perché suggerisce come un nuovo meccanismo, cioè la regolazione del pH cellulare, possa essere importante nell’attivazione delle cellule immunitarie nella SM; il gene coinvolto potrebbe inoltre rappresentare un nuovo target per lo sviluppo. Questo risultato non è ancora pronto per essere utilizzato in ambito clinico, ma pone le basi per possibili applicazioni future, nell’ambito della cosiddetta medicina personalizzata, volta cioè ad adattare i trattamenti ai singoli pazienti al fine di massimizzare l’effetto terapeutico”.
 
Il lavoro è stato sostenuto da consorzio multicentrico genetico italiano PROGRESSO, Ministero della Salute Italiano (Progetto Giovani Ricercatori 2007), Fondazione Italiana Sclerosi Multipla (FISM), French MS Society Association pour la recherche sur la sclérose en plaques, Club francophone de la SEP e Réseau français pour la génétique de la SEP.
 
Maria Rita Montebelli
17 maggio 2015
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