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FarmacistaPiù. “Puntare su formazione farmacisti territorio e collaborazione con gli ospedalieri per vincere la sfida dell'innovatività”. Intervista a Giacomelli (Fofi)
"Non è poco: ma abbiamo già cominciato a porre le basi di questa evoluzione culturale, che però dovrà accompagnarsi a una riforma delle modalità con cui si compensa l’attività del farmacista". Questa la ricetta del membro del Comitato centrale della Fofi e delegato regionale della Toscana, su un tema che verrà affrontato in uno dei tavoli di lavoro organizzati in occasione del convegno dei farmacisti italiani in scena a Milano dal 17 al 19 marzo.
14 MAR - Nell’ambito della sessione Protagonismo territoriale, uno dei tavoli è dedicato alla “Governance farmaceutica e farmaci innovativi”. A guidare i lavori sarà Andrea Giacomelli, membro del Comitato centrale della Fofi e delegato regionale della Toscana.
 
Dottor Giacomelli, il tema del tavolo che presiede è uno dei più dibattuti del momento…
Sì, e spesso si fa una certa confusione. Leggiamo articoli di giornale, per esempio, in cui si mettono sullo stesso piano la spesa per il farmaco di fascia C, anche da banco, e quella per il farmaco innovativo che temporaneamente è stato classificato in fascia C non negoziato. E’ evidente che l’attenzione, anche dell’opinione pubblica, si concentra sui farmaci innovativi ed è effettivamente uno dei principali aspetti su cui tutto l’Occidente industrializzato si sta interrogando. Le riviste scientifiche ospitano sempre più spesso articoli dedicati al tema della valutazione dell’innovatività dei farmaci e della sua remunerazione.
 
Si intravvede una soluzione “semplice”?
No, per la semplice ragione che lo stesso concetto di innovazione non è semplice: c’è quella che introduce un salto radicale rispetto al passato: il trattamento, e a volte la guarigione, per malattie un tempo non trattabili efficacemente e non risolvibili; ma vi sono anche nuovi farmaci che si rivolgono a patologie per le quali già si conoscono terapie capaci di dare risultati, ma inferiori a quelli dimostrati dal medicinale più recente. Oppure la percentuale di successo può esser la medesima, ma con modalità di somministrazione più semplici e tali da consentirne l’impiego sul territorio anziché in ospedale, per esempio. Sarebbe scorretto valutare solo l’innovazione “rivoluzionaria” e misconoscere quella incrementale. Recentemente un articolo faceva l’esempio dei betabloccanti: nessuno pensa oggi che gli ultimi arrivati in questa classe siano stati “inutili”, anzi!
Riveste quindi particolare importanza distinguere fra farmaci nuovi e farmaci realmente innovativi.
 
E poi qui parte il discorso della remunerazione.
Esattamente, il NICE britannico, che funge un po’ da fato in questa materia, ha da tempo adottato lo strumento dei QUALYs, cioè degli anni di vita aggiustati per la qualità. Ogni anno in più di vita “di qualità” che il farmaco garantisce ha un valore economico e di qui si parte per valutare se rimborsare un farmaco e a quale livello. A questo si aggiungono altri schemi come il pagamento in base ai risultati ottenuti, la divisione del rischio tra Servizio sanitario e produttore e altri. E qui si innesta il tema della governance. Se si responsabilizza l’azienda sui risultati del farmaco, e se lo Stato investe nell’innovazione, nella pratica clinica quotidiana bisogna garantire che il medicinale venga impiegato nelle condizioni ottimali: rispettando tutti gli aspetti cruciali dello schema terapeutico, dal numero delle assunzioni agli orari, al controllo delle interazioni. Questo vale per l’ospedale e vale per il territorio, e in entrambi i setting il farmacista può e deve avere un ruolo fondamentale: parliamo di aderenza alla terapia, ovviamente, ma anche di tracciamento dell’accesso al farmaco attraverso il dossier farmaceutico, di farmacovigilanza. 
 
Ha accennato al dualismo tra territorio e ospedale. E’ inevitabile? E l’innovazione ha la sua sede naturale nell’ospedale?
Non è un dualismo, a mio avviso, ma uno spettro continuo. E’ evidente che esistono farmaci il cui impiego non può che essere ospedaliero, così come è innegabile che l’avviamento della terapia in molti casi deve essere guidato dallo specialista. Ma dopo, in un numero rilevante di casi, dispensazione e somministrazione possono avvenire sul territorio e questo rappresenterebbe anche un elemento di equità ed economicità dell’accesso da parte dei cittadini, che non risiedono necessariamente nei pressi di un centro di riferimento o comunque a un ospedale ma sicuramente hanno una farmacia nel loro quartiere o comunque facilmente raggiungibile, anche in località disagiate. Se all’arrivo dei fluorochinoloni orali si fosse mantenuta la stessa riserva all’ospedale di quelli iniettivi, il vantaggio della nuova formulazione dove sarebbe finito? E’ ovvio che questa evoluzione richiede due cose innanzitutto: preparazione del farmacista sul territorio, che finora è rimasto escluso dal circuito dell’innovazione, comunicazione e collaborazione tra farmacista ospedaliero e farmacista di comunità. 
Non è poco: ma abbiamo già cominciato a porre le basi di questa evoluzione culturale, che però dovrà accompagnarsi a una riforma delle modalità con cui si compensa l’attività del farmacista. 
14 marzo 2017
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